Johann Wolfgang von Goethe

di | 1 Gennaio 2021

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Johann Wolfgang von Goethe (in tedesco ascolta, [ˈjoːhan ˈvɔlfɡaŋ fɔn ˈɡøːtə]; Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 – Weimar, 22 marzo 1832) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo tedesco. Considerato dalla scrittrice George Eliot «…uno dei più grandi letterati tedeschi e l’ultimo uomo universale a camminare sulla terra», viene solitamente reputato uno dei casi più rappresentativi nel panorama culturale europeo. La sua attività fu rivolta alla poesia, al dramma, alla letteratura, alla teologia, alla filosofia, all’umanismo e alle scienze, ma fu prolifico anche nella pittura, nella musica e nelle altre arti. Il suo magnum opus è il Faust, un’opera monumentale alla quale lavorò per oltre sessant’anni.

Goethe fu l’originario inventore del concetto di Weltliteratur (letteratura mondiale), derivato dalla sua approfondita conoscenza e ammirazione per molti capisaldi di diverse realtà culturali nazionali (inglese, francese, italiana, greca, persiana e araba). Ebbe grande influenza anche sul pensiero filosofico del tempo, in particolare sulla speculazione di Hegel, Schelling e, successivamente, Nietzsche.

BIOGRAFIA

«Sono venuto al mondo a Francoforte sul Meno il 28 agosto 1749 al suono delle campane di mezzogiorno. La costellazione era fortunata; il Sole era nella Vergine, al culmine in quel giorno; Giove e Venere gli ammiccavano amichevolmente, Mercurio senza ostilità; Saturno e Marte erano indifferenti; solo la Luna, quasi piena, esercitava la sua forza avversa con maggior intensità perché entrata nella sua ora planetaria. Essa si oppose dunque alla mia nascita, che non poté succedere fin che quell’ora non fu passata. Questi aspetti fortunati, a cui in seguito gli astrologi diedero molta importanza, possono ben essere stati causa della mia conservazione, perché per inabilità della levatrice io venni al mondo come morto, e solo con molti sforzi riuscirono a farmi vedere la luce.»
(Goethe, dal libro autobiografico Poesia e verità, vol. I, trad. di Emma Sola, Firenze, Sansoni, 1944)

Primogenito di Johann Caspar (1710-1782), doctor juris e consigliere imperiale, uomo di formazione, e di Katharina Elisabeth Textor (1731-1808), Johann Wolfgang von Goethe nacque a Francoforte sul Meno poco dopo il mezzogiorno del 28 agosto 1749, giorno del primo anniversario del matrimonio dei genitori. Katharina ebbe delle difficoltà nel parto, provocate dall’imperizia della levatrice, che sembra spinsero il nonno materno, Johann Wolfgang Textor, sindaco di Francoforte, a istituire in città l’istruzione ostetrica obbligatoria.

Il giorno dopo fu battezzato secondo il rito protestante. Nel dicembre del 1750 nacque la sorella Cornelia Friederike Christiana (1750-1777), la sua compagna di giochi dell’infanzia; gli altri cinque successivi fratelli sarebbero invece morti in tenera età.

Nel periodo che va dal 1752 al 1755, Johann e la sorella frequentarono un asilo, ma il grosso dell’istruzione la ricevettero in casa, sotto la direzione del padre. Entrarono a contatto con il mondo della lettura e impararono divertendosi. Nel 1753, per Natale, il piccolo Johann ricevette in regalo un teatro di marionette.

A partire dal 1755 Johann imparò a leggere e a scrivere il tedesco in una scuola pubblica, poi, privatamente, il latino e un poco di greco. Nel 1757 compose i suoi primi versi, rigorosamente in rima. Nel 1758 studiò il francese e prese lezioni di disegno.

A seguito della guerra dei sette anni, il 1º gennaio 1759 i francesi conquistarono Francoforte e in casa Goethe s’installò il luogotenente François de Théas, conte di Thoranc, comandante della piazza; alle truppe francesi si accompagnavano attori e cantanti e Johann ebbe modo di assistere a recite delle tragedie di Racine, di Corneille e delle commedie di Molière, oltre ad altre opere e intermezzi musicali, fino alla partenza dei francesi, avvenuta il 2 dicembre 1762.

Nel 1760 Johann apprese l’arte della calligrafia e studiò l’italiano: il padre era stato in Italia nel 1740 e aveva scritto, in un italiano impreciso, un diario di viaggio e fatto incisioni approssimative di Roma, messe in mostra nella casa natale dei Goethe a Francoforte.

Nel 1762 Johann apprese l’inglese e un po’ di ebraico. Nel 1763 cominciò lo studio del pianoforte e nello stesso anno, il 25 agosto, assistette a un concerto di pianoforte di Mozart, allora bambino di sette anni, imparruccato e con lo spadino al fianco. Adolescente, imparò l’equitazione e la scherma.

Nel 1764, l’anno della salita al trono di Giuseppe II, gli capitò di raccomandare al nonno materno un giovane per un impiego nell’amministrazione cittadina; dopo l’assunzione, si scoprì che quell’impiegato era un truffatore. Johann fu, in un primo tempo, perfino sospettato di complicità, ma presto si riconobbe la sua estraneità ai fatti.

Ormai diciassettenne, fu tempo per Johann di frequentare l’università: egli avrebbe voluto seguire i corsi di lettere classiche e retorica a Gottinga, ma il padre scelse per lui gli studi di diritto a Lipsia e così, il 30 settembre 1765, Johann partì da Francoforte per quella città, con in tasca la buona somma di 1.200 fiorini per garantirsi un più che decoroso mantenimento.

A LIPSIA (1765-1768): A Lipsia Johann s’inserì senza difficoltà nella frivola vita di società, così diversa da quella conservatrice e patriarcale di Francoforte; ebbe una relazione con Kätchen Schönkopf (1746-1810), scrisse Die Laune des Verliebten (“Il capriccio dell’innamorato”), una commedia arcadica, e Die Mitschuldigen (“I correi”), altra commedia senza pretese, e varie poesie musicate da quel Bernhard Breitkopf, proprietario di una Casa editrice musicale che sarebbe diventata molto famosa, del quale il giovane Goethe frequentò la famiglia. Relativamente a questo periodo, egli commentò di avere allora cominciato a seguire la tendenza a «trasformare in un’immagine, in una poesia e a portare a compimento in me quel che mi dava gioia o tormento o che comunque occupava il mio spirito», e che «tutto ciò che si è conosciuto di me sono solo frammenti di una grande confessione». Fra il febbraio e il marzo del 1768 si recò a Dresda, visitando le collezioni d’arte raccolte nella città e in giugno venne a conoscenza della tragica morte di Johann Joachim Winckelmann, che egli apprezzava molto.

Tuttavia, i componimenti di Johann non vennero apprezzati ed egli stesso si convinse che fosse meglio bruciare la maggior parte di quella prima produzione; il 28 agosto 1768 ritornò a Francoforte senza aver concluso nulla.

A STRASBURGO (1770-1771): A Francoforte Johann soffrì di coliche, vomitò sangue e dovette subire anche un intervento chirurgico al collo; il giovane Goethe non pensò di poter vivere a lungo e si aprì all’influsso religioso pietistico della madre e della sua amica Susanna Katharina von Klettenberg (1723-1774), una signora quarantacinquenne che egli avrebbe ricordato affettuosamente in Poesia e verità, e nelle Confessioni di un’anima bella. Fu un breve periodo in cui, oltre a partecipare, in verità senza entusiasmo, a pratiche devozionali, lesse la Storia della Chiesa e degli eretici di Gottfried Arnold insieme con l’ascetica Imitazione di Cristo. Interessandosi anche di occultismo e astrologia occidentale, Goethe fu sempre anticonfessionale, pur guardando con simpatia e interesse alla ricerca spirituale, e si definì un eretico che i cristiani avrebbero volentieri messo al rogo.

Con il ritorno della buona salute tornò anche il tempo di riprendere gli studi universitari; a Strasburgo avrebbe potuto imparare bene il francese e studiare in una università di cultura tedesca: così, partito alla fine del marzo 1770, il 2 aprile Johann giunse a Strasburgo. Qui si fece molti amici, come Johann Heinrich Jung-Stilling, che scrisse La giovinezza di Heinrich Stilling, e il futuro drammaturgo Jakob Michael Reinhold Lenz; all’inizio dell’estate visitò con due amici l’Alsazia e la Lorena. Conobbe e subì l’influenza di Johann Gottfried Herder, letterato e filosofo già noto, il quale, al termine di un suo viaggio in Francia, era stato costretto a soffermarsi in settembre a Strasburgo per un’operazione agli occhi. Per un ammiratore della poesia popolare (Volkspoesie) come Herder, Goethe compose il lied Rosellina della landa, gabellandoglielo come autentica poesia popolare, e ne ascoltò le tesi sullo spirito nazionale tedesco elaborandole in scritti su Shakespeare e sull’architettura gotica: «l’architettura tedesca», scrisse Goethe, «la nostra architettura, mentre gli italiani non ne hanno alcuna da vantare come propria e ancor meno i francesi».

Lesse con interesse i romanzi inglesi di Goldsmith, Fielding e Sterne e s’interessò a un personaggio storico, Götz von Berlichingen, e a un personaggio di fantasia che attraverso di lui ottenne poi una fama immortale, il Dottor Faust. Nella primavera del 1771, nel vicino paese di Sessenheim, ebbe un’impegnativa relazione amorosa con Friederike Brion (1752-1813), figlia di un pastore protestante. La relazione gli ispirò diverse liriche, come Willkommen und Abschied (Benvenuto e addio), Maifest (Festa di maggio), Ob ich dich liebe, weiß ich nicht (Non so se ti amo) e Jetzt fühlt der Engel (Ora l’angelo sente). Nell’estate dello stesso anno Johann presentò la dissertazione che avrebbe dovuto procurargli la laurea, ma poiché questa venne respinta, egli non poté ottenere il titolo di dottore in legge. In sostituzione, il 6 agosto 1771, presentò alcune tesi di diritto che, approvate, gli valsero il titolo inferiore di Licentiatus juris. Salutò Friederike, che avrebbe rivisto a Sessenheim amichevolmente otto anni dopo, e ritornò a Francoforte.

IL GOTZ VON BERLICHINGEN: Tornato a Francoforte, la città nido, scrisse: «nidus, buono a covarci uccellini ma in senso figurato, spelunca, un tristo paesucolo. Dio ci scampi da tanta miseria. Amen». Il 28 agosto 1771, giorno del suo ventiduesimo compleanno, Goethe ottenne il permesso di esercitare la professione di avvocato, che però avrebbe abbandonato da lì a quattro anni. Continuò a scrivere, in quegli anni, seguendo la nuova corrente dello Sturm und Drang, la nuova poetica preromantica della Tempesta e Assalto (dal dramma omonimo di Friedrich Maximilian Klinger). Scrisse poi che in quegli anni «giovani geniali vennero improvvisamente alla ribalta con grandissimo coraggio e presunzione, com’è peculiare a quell’età, e impiegando le loro energie produssero molte cose buone, donarono molta gioia ma, abusandone, diedero molti dispiaceri e provocarono parecchi guai».

Il frutto di Goethe fu la storia drammatizzata, in prosa, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (Storia di Goffredo di Berlichingen dalla mano di ferro), compiuta alla fine del 1771 che, rielaborata alla fine del marzo 1773, fu pubblicata anonima nel giugno successivo con il titolo Götz von Berlichingen mit der eisernen Hand. Ein Schauspiel. Testo di lettura da non rappresentare in teatro, fu pubblicato con autorizzazione di Goethe nel 1787; Goethe vi ritornerà ancora nel 1804 per adattarla al teatro e la prima rappresentazione fu data a Weimar il 22 settembre 1804.

Tratto dall’autobiografia dello stesso Götz, scritta nel 1562 e nota a Goethe in un’edizione del 1731, è la vicenda di un piccolo feudatario tedesco che si ribella ai potenti schierandosi con i contadini in rivolta contro l’Impero nella guerra del 1525; Goethe rappresenta la tragedia dell’onestà e della lealtà cavalleresca – in un’epoca in cui la cavalleria era decaduta ad attività di ladrocini, di sopraffazioni e di arbitrii – che soccombono contro la viltà, la corruzione e l’adulazione. Ma è anche la denuncia delle condizioni miserabili di una società che impedisce alle persone d’ingegno di realizzarsi, e opprime e si oppone alla virtù.

In realtà Goethe, che segue la concezione möseriana dell’epoca feudale classica come “epoca della libertà”, non comprende né la natura reazionaria della rivolta dei nobili né la natura progressista della rivolta dei contadini, ma individua correttamente il processo storico che trasforma i cavalieri in nobili di corte di Stati assolutisti.

A WETZLAR (1772): Nel maggio 1772, dietro consiglio del padre, Johann si trasferì nella cittadina di Wetzlar, dove era stata istituita la Corte imperiale di giustizia, un tribunale presso il quale si iscrisse il 23 maggio come praticante. Naturalmente non si occupò di faccende legali: preferì frequentare la taverna del “Principe ereditario”, dove conobbe, fra tanti, Karl Wilhelm Jerusalem (1747-1772), figlio di un noto teologo, giovane intellettuale inquieto, innamorato di una donna sposata, e l’avvocato Johann Christian Kestner (1741-1800), del quale si conosce un interessante giudizio sul giovane e ancora sconosciuto Goethe:

«Ha molti talenti, è un vero genio e un uomo di carattere, ha un’immaginazione straordinariamente viva, per cui si esprime per lo più con immagini e similitudini. Nei suoi affetti è impetuoso, tuttavia spesso sa dominarsi bene. Il suo modo di pensare è nobile. Libero da pregiudizi quanto più è possibile, agisce come gli viene in mente, senza curarsi di quel che pensano gli altri. Ogni costrizione gli è infatti odiosa. Ama i bambini ed è molto bravo a trattarli. È bizzarro e nel suo modo di fare, nell’apparenza esteriore, ha diverse cose che potrebbero renderlo sgradevole ma gode di molto favore fra i bambini, le donne e molti altri ancora. Ha moltissima stima del sesso femminile. I suoi principi non sono ancora molto saldi, non è quello che si può definire un ortodosso, ma non per orgoglio o per capriccio o per darsi delle arie.Non ama turbare negli altri la tranquillità delle loro convinzioni. Odia lo scetticismo, aspira alla verità e alla chiarezza su alcune materie principali e crede anche di avercela, questa chiarezza sulle cose importanti. Ma secondo me, non la possiede ancora. Non va in chiesa, non si comunica, prega raramente: “non sono abbastanza simulatore per farlo”, dice. Della religione cristiana ha molto rispetto, ma non nella forma presentata dai teologi. Crede in una vita futura, in una condizione migliore. Aspira alla verità, ma preferisce sentirla più che darne una dimostrazione. Ha già fatto molto e ha dalla sua molte conoscenze e molte letture; ma è più quello che ha pensato e ha ragionato. La sua occupazione principale consiste nelle belle arti e nelle scienze o meglio, in tutte le scienze, tranne quelle che ci procurano il pane… insomma, è un uomo assai notevole.»
(Johann Christian Kestner, da una lettera all’amico Hennings, autunno 1872)

Kestner era fidanzato con una ragazza, Charlotte (o Lotte) Buff (1753-1828) che, egli scrisse, «non è una bellezza straordinaria ma è quello che si dice una bella ragazza e a me nessuna è mai piaciuta più di lei», mentre Goethe, che la conobbe il 9 giugno e la frequentò quasi giornalmente, la definì una «di quelle che sono fatte, se non per ispirare passioni violente, certo per suscitare la simpatia generale».

L’insistente assiduità della presenza di Goethe provocò la reazione di Lotte che, il 16 agosto, gli dichiarò che egli «non può sperare altro che amicizia» e l’11 settembre 1772 Goethe lasciò Wetzlar. A Francoforte, ricevette da Kestner la notizia che il comune amico Jerusalem si era ucciso il 30 ottobre; nella vicenda vi era tutto l’intreccio del prossimo romanzo I dolori del giovane Werther.

I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER (1774): Werther conosce e frequenta due giovani fidanzati, Charlotte e Albert; s’innamora della ragazza, che pure potrebbe ricambiarlo, ma è respinto da quest’ultima (chiamata amichevolmente Lotte) che è promessa in sposa ad Albert e può concedere a Werther solo la propria amicizia.

Werther è un intellettuale borghese le cui possibilità di realizzarsi sono condizionate dalla capacità o meno di adeguarsi alla realtà delle piccole corti aristocratiche tedesche. Egli vive una duplice contraddizione: l’incapacità di realizzare il fine dell’umanesimo borghese di una piena realizzazione della propria personalità nella viva realtà sociale e l’incapacità di accettare la convenzione pietistica del tempo, secondo la quale l’amore fra uomo e donna, se non permesso, deve trasformarsi in amore fraterno. La contraddizione non si risolve perché Werther non separa gli interessi sociali dai suoi interessi individuali: intellettuale in una Germania semifeudale, non riesce a realizzarsi e la sua coscienza, che non scinde in sé le esigenze della ragione da quelle del sentimento, le esigenze dell’ambizione sociale da quelle dell’amore, lo spinge al suicidio.

Napoleone, nel noto incontro a Erfurt nel 1808, fece rilevare a Goethe proprio la mancata separazione, in Werther, fra ambizione e amore; e infatti Napoleone seppe ben distinguere, nella sua vita, la necessità della realizzazione del successo politico da quella del sentimento privato: in quanto non diviso dalla realtà di una società ben più matura, egli aveva ben chiara tale distinzione, da lui vissuta nella scissione della propria coscienza. Werther ha invece una coscienza indivisa proprio perché egli vive separato dalla realtà; per continuare a vivere, egli avrebbe dovuto “uccidere la sua coscienza”, avrebbe dovuto “morire nella propria coscienza” per poter vivere senza sofferenze nella realtà.

Il successo di questo romanzo epistolare, scritto di getto dal febbraio al marzo 1774, fu straordinario e fu anche pretesto di non poche funeste imitazioni; lo stesso Goethe assistette al recupero del cadavere di una ragazza suicidatasi a Weimar con in tasca il romanzo. La maggior parte dei lettori credette di ravvisare in Werther, come scrisse il Croce, «l’apologia della passione e ragione, la protesta contro le regole, i pregiudizi e le convenzioni sociali» non vedendo invece la sostanza reale, la rappresentazione di una malattia, che non è tuttavia la malattia psichica di un individuo, ma è la malattia della Germania dell’epoca. Al tempo in terra tedesca, ancora lontana dagli ideali di libertà e autodeterminazione francesi o americani, il disagio e la ristrettezza dovuti alla condizione di cittadino rinchiuso tra le mura di mille staterelli era sentore comune tra le classi medio-alte. Werther, come borghese, ne è l’esempio ma anche al contempo la parodia: lo scopo di Goethe era infatti quello di mettere in ridicolo questo atteggiamento di passività fisica e mentale, cosa che non fu pienamente capita dai lettori meno attenti. In molti casi, la sottile ironia del maestro tedesco, soprattutto un’errata e affrettata interpretazione, finì col portare molti giovani di buona famiglia al suicidio. Quarant’anni più tardi, in Poesia e verità, Goethe scriverà al riguardo:

«L’effetto di questo libro fu grande, anzi enorme, specialmente perché comparve nel tempo giusto. Perché, come basta una pagliuzza per far scoppiare una mina potente, anche l’esplosione che si produsse nel pubblico risultò così potente perché il mondo dei giovani era già minato e la commozione fu tanto grande perché ciascuno veniva allo scoppio con le sue esigenze esagerate, le sue passioni inappagate e i suoi dolori immaginari.»
(Goethe, Poesia e verità, 1811-1833)

A WEIMAR (1775-1786): Goethe conobbe Klopstock e il teologo svizzero e appassionato di fisiognomica Johann Caspar Lavater, il quale credeva di individuare nel profilo dei volti il carattere delle persone e, a questo scopo, fece eseguire dal pittore Schmoll diversi ritratti di Goethe. Incontrò anche il filosofo Jacobi, il quale, polemizzando contro Spinoza e qualificandolo come ateo, stimolò Goethe, che pure non amava la filosofia, ad approfondire la conoscenza del filosofo olandese. In seguito Goethe si sarebbe sempre riconosciuto nelle teorie panteiste di Spinoza.

Nel 1775 ebbe un nuovo breve fidanzamento con la sedicenne Lili Schönemann (1758-1817), figlia di un banchiere, ma in ottobre, non sopportando la prospettiva di un vincolo matrimoniale, ruppe con lei e il 7 novembre giunse a Weimar come precettore del diciottenne Carlo Augusto, duca di Sassonia-Weimar-Eisenach, che governava uno staterello formato unicamente dalla capitale Weimar, cittadina di 6.000 abitanti, dalla città universitaria di Jena e da alcune “ville di delizia”.

Nel 1776 Goethe divenne membro del Consiglio segreto: il 6 settembre 1779 venne nominato consigliere segreto e confessò: «mi sembra meraviglioso raggiungere, come in un sogno, a trent’anni, il più alto grado onorifico che un cittadino tedesco possa ottenere». Il 10 aprile 1782 ottenne il titolo nobiliare dall’imperatore Giuseppe II. Nel frattempo scrisse il dramma Stella.

Gli anni che vanno dal 1776 al 1788 furono segnati dall’amicizia con Charlotte von Stein (1742-1827), donna che s’impegnò a educarlo ai compiti che lo avrebbero atteso come precettore e poi come consigliere del duca. La von Stein dovette innanzitutto trasformare l’illustre poeta in un uomo di mondo, poi ridurre il viziato idolo del momento in un uomo rispettoso delle regole di vita esistenti nel ristretto e selezionato ambiente in cui viveva la duchessa Anna Amalia. Questi insegnamenti di equilibrio, misura e autocontrollo, che furono la base della sua evoluzione, vennero ben accettati da Goethe, pur costandogli considerevoli sforzi e sacrifici.

Nel 1777 morì la sorella Cornelia. Johann visitò la zona dello Harz e cominciò il Wilhelm Meister. Nel 1778 fece un viaggio a Berlino e cominciò a scrivere l’Ifigenia in Tauride (Iphigenie auf Tauris), completata nella versione in prosa l’anno successivo. Studiò mineralogia, anatomia, osteologia, geologia e botanica e, nel 1782, anno di morte del padre, si trasferì in una nuova e definitiva casa.

I primi dieci anni trascorsi a Weimar, caratterizzati da una certa povertà nella produzione poetica, mostrarono soprattutto questa sua lenta trasformazione. Vi furono opere ancora improntate alla sua poesia precedente, come, per esempio, I canti di Mignon inclusi nel Wilhelm Meister, le due ballate Il pescatore (Der Fischer) e Il re degli elfi (Erlkönig), e lo stupendo Canto notturno del viandante (Wanderers Nachtlied), poesia nella quale l’anima del poeta lentamente si sostituisce al cuore capriccioso che aveva dominato la produzione precedente.

La ricerca della verità ultima dell’anima dominò altre composizioni; scrisse infatti il Canto degli spiriti sopra le acque (Gesang der Geister über dem Wasser, che fu poi musicato da Franz Schubert), i Limiti dell’umano (Grenzen der Menschheit) e Il divino (Das Göttliche). In quel periodo (dal 1777 al 1785) Goethe compose anche il romanzo La missione teatrale di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters theatralische Sendung), in questa prima versione ritrovato e pubblicato solo nel 1911. Quegli anni, inoltre, lo videro impegnato su diversi fronti come consigliere ministeriale per gli affari militari, per la viabilità, per le miniere e la pubblica amministrazione.

Durante il suo soggiorno a Weimar, Goethe fu iniziato in massoneria nella loggia «Amalia» il 23 giugno 1780. Un anno dopo, il 23 giugno 1781, diventò «Compagno», «Maestro» il 2 marzo 1782, con il duca Carlo Augusto di Sassonia-Weimar-Eisenach, che era un suo amico e protettore. Il 4 dicembre 1782 ricevette il quarto grado scozzese della «Stretta Osservanza» e l’11 febbraio 1783 aderì agli «Illuminati».

Fu anche sovrintendente ai musei, e – come si è detto – nel 1782 venne insignito del titolo nobiliare. Quel periodo di radicali cambiamenti, e senza dubbio negazione di sé, finì quando Goethe, nel 1786, all’insaputa di tutti, fuggì in Italia.

GOETHE IN ITALIA (1786-1788): Nel 1786 Goethe, a 37 anni, intraprese il suo primo viaggio in Italia, durato quasi due anni: arrivò a Trento il 10 settembre e poi continuò il suo viaggio verso Rovereto e Torbole.

«Eccomi a Rovereto, punto divisorio della lingua; più a nord si oscilla ancora fra il tedesco e l’italiano. Qui per la prima volta ho trovato un postiglione italiano autentico; il locandiere non parla tedesco, e io devo porre alla prova le mie capacità linguistiche. Come sono contento che questa lingua amata diventi ormai la lingua viva, la lingua dell’uso!»
(Viaggio in Italia, 1829)

Entrato nel territorio della Repubblica di Venezia si fece malaccortamente sorprendere a Malcesine mentre redigeva uno schizzo del castello. Fu quindi sospettato di essere una spia e tratto in arresto, per essere poi liberato appena venne confermata la sua identità.

Il lago di Garda gli fece una grandissima impressione, in quanto il clima mediterraneo, gli uliveti e gli agrumi del Benaco gli schiudevano un nuovo mondo e quando, poche settimane dopo, giunse a Verona, ricchissima di resti romani, il suo entusiasmo salì alle stelle, soprattutto dopo la visita all’Arena.

Dopo Verona, Goethe si spostò dapprima a Vicenza. Qui visitò alcune opere architettoniche di Andrea Palladio, lodando l’artista, e Villa Valmarana ai Nani, elogiando il Tiepolo.

Il 28 settembre, alle cinque di sera, Goethe arrivò a Venezia e, alla vista di una gondola, lo scrittore rammentò un modello in miniatura che il padre aveva portato dal suo viaggio in Italia. Qua si fermò per 16 giorni dove, oltre alle opere artistiche, tra cui i Cavalli di San Marco, si divertì molto a vedere nei teatri gli spettacoli della Commedia dell’arte; inoltre si fece portare al Lido di Venezia, dove per la prima volta vide il mare.

Proseguì quindi per Roma e soggiornò in via del Corso 18 dove oggi c’è il museo la Casa di Goethe e riscrisse Ifigenia in Tauride in versi, poi nel febbraio-giugno 1787 arrivò a Napoli, dove si fermò più di un mese. In città soggiornò presso Palazzo Filangieri d’Arianello (dove è ora presente anche una targa in suo onore) e Palazzo Sessa, all’epoca sede dell’Ambasciata inglese nel Regno di Napoli.

A Napoli conobbe Jakob Philipp Hackert e Gaetano Filangieri. Salì per due volte sul Vesuvio in eruzione, visitò Pompei, Ercolano, Portici, Caserta, Torre Annunziata, Pozzuoli, Salerno, Paestum e anche Cava de’ Tirreni, città da cui rimase particolarmente affascinato. Sbarcò poi in Sicilia, visitando Palermo, Segesta, Selinunte e Agrigento, passando per Caltanissetta, quindi sul versante est a Catania, Taormina e Messina. Ne rimase estasiato, affermando alle fine del suo lungo viaggio:

«L’Italia, senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra […] chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita.»

Dopo un secondo soggiorno a Napoli, rientrò a Roma e infine il 18 giugno 1788 a Weimar, dopo aver trascorso due anni di piena felicità, nel duplice appagamento dei sensi e dello spirito, grazie all’amore e all’incanto della civiltà antica. Il paesaggio, l’arte e il carattere del popolo italiano incarnarono il suo ideale di fusione di spirito e sensi. Qui egli riuscì a dare la forma definitiva a quella Ifigenia in Tauride che, scritta in prosa, trovò il suo compimento nel Blankvers o “pentapodia giambica”. Durante il suo soggiorno di più di un anno a Roma commissionò allo scultore di Sciaffusa Alessandro Trippel il proprio famoso busto marmoreo.

La Ifigenia venne giudicata il vangelo del moderno umanesimo. Questo dramma, come tutti i drammi di Goethe, fu una tragedia solo in potenza, infatti Ifigenia avrebbe salvato il fratello dalla follia e Toante dall’ingiustizia, ma, soprattutto, grazie alla propria forza morale, avrebbe trionfato sul destino e mantenuto la propria libertà. Un altro esempio di questo peculiare intendere il dramma, fu il Torquato Tasso, altra opera portata a termine in Italia (Goethe visitò la cella del Tasso e la casa di Ludovico Ariosto a Ferrara e gli antichi palazzi degli Estensi), nel quale lo scrittore tedesco celebrò nel poeta italiano il proprio demone giovanile.

RITORNO A WEIMAR (1788-1732) E ULTIMI ANNI: Al ritorno a Weimar trovò una fredda accoglienza. Rinunciò a quasi tutti gli incarichi e si legò stabilmente a Christiane Vulpius (1765-1816), una semplice fioraia. Dei cinque figli avuti con lei, solo August (1789-1830) sarebbe sopravvissuto.

La pubblicazione delle Elegie romane (Römische Elegien), racconto del periodo italiano, suscitò indignazione per i suoi aspetti sensuali e licenziosi. Studiò anatomia e ottica. Nel 1790 fece un breve viaggio a Venezia che gli ispirò gli Epigrammi veneziani (Venezianische Epigramme). Scrisse la Metamorfosi delle piante (Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erklären) e i Saggi sull’ottica. Nel 1792 assistette alla battaglia di Valmy e l’anno successivo all’assedio di Magonza. Poi pubblicò, senza successo, La volpe Reinardo (Reineke Fuchs), poema animalesco.

L’insieme degli eventi chiuse Goethe in una sorta di isolamento sociale, ma soprattutto spirituale. La consapevolezza di essere incompreso e la dolorosa coscienza della propria momentanea aridità poetica lo portarono al disprezzo e rifiuto di tutto ciò che fosse lontano dal proprio modo di pensare. La crisi di quegli anni fu gravissima, ma, come già in passato, nel 1794, la comparsa e l’amicizia di un uomo come Friedrich Schiller lo salvò da tale situazione. Dal 1794 si dedicò principalmente alla letteratura. Nel 1808 uscì l’edizione Opera omnia in 12 volumi, ma ancora doveva pubblicare Le affinità elettive (Die Wahlverwandschaften), la Teoria dei colori (Zur Farbenlehre) e molto altro, tanto che nel 1826 cominciò l’edizione completa in 40 volumi.

Nel 1814 incontrò Marianne von Willemer (1784-1860). Nel 1817 assistette al matrimonio del figlio August con Ottilie von Pogwisch (1796-1872), dalla quale ebbe poi tre figli che Goethe poté conoscere. Intorno agli anni 1821-1823 amò (dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1816) una certa Ulrike von Levetzow (1804-1899), di 55 anni più giovane di lui.

Negli ultimi anni conobbe e si affezionò al giovane Felix Mendelssohn, allora poco più che ventenne, che lo venerava e poté abbellire le sue ore con la musica e la colta conversazione.

Dopo una vita di straordinaria fecondità creativa, morì nel 1832 a Weimar, probabilmente per un attacco cardiaco. Le sue spoglie riposano nella Cripta dei Principi nel cimitero storico di Weimar.

Anche se la questione è assai controversa, le sue ultime parole, divenute comunque famosissime, sarebbero state: Mehr Licht («Più luce»), quasi a conferma della sua convinzione che, se a un uomo vivo è inconcepibile la propria morte, allora la nostra vita non finirà. Tuttavia per altri la frase avrebbe una spiegazione molto più prosaica: Goethe chiedeva semplicemente che gli si aprisse la finestra. Per altri ancora, le sue ultime parole sarebbero state: Mehr Nicht («Non più»), quasi l’opposto di Mehr Licht.

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