Gabriele D’Annunzio

di | 11 Gennaio 2021

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Gabriele D’Annunzio, allo stato civile Gabriele d’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938), è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano, simbolo del decadentismo e celebre figura della prima guerra mondiale, dal 1924 insignito dal Re Vittorio Emanuele III del titolo di “Principe di Montenevoso”.

Soprannominato “il Vate” (allo stesso modo di Giosuè Carducci), cioè “poeta sacro, profeta”, cantore dell’Italia umbertina, o anche “l’Immaginifico”, occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924. È stato definito «eccezionale e ultimo interprete della più duratura tradizione poetica italiana […]». Come figura politica lasciò un segno nella sua epoca ed ebbe un’influenza notevole sugli eventi che gli sarebbero succeduti.

La sua arte fu così determinante per la cultura di massa, che influenzò usi e costumi nell’Italia – e non solo – del suo tempo: un periodo che più tardi sarebbe stato definito appunto “dannunzianesimo”.

Biografia

La famiglia e gli anni di formazione

La casa natale di Gabriele D’Annunzio a Pescara

Gabriele D’Annunzio a 7 anni
Nacque a Pescara, nel quartiere Portanuova in corso Manthonè, il 12 marzo 1863 da una famiglia borghese benestante. Terzo di cinque figli, visse un’infanzia felice, distinguendosi per intelligenza e vivacità. Dalla madre, Luisa de Benedictis (1839-1917), erediterà la fine sensibilità; dal padre, Francesco Paolo Rapagnetta D’Annunzio (1831-1893) (il quale aveva acquisito nel 1851 il cognome D’Annunzio da un ricco parente che lo adottò, lo zio Antonio D’Annunzio), il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la disinvoltura nel contrarre debiti, che portarono la famiglia da una condizione agiata a una difficile situazione economica. Reminiscenze della condotta paterna, la cui figura è ricordata nelle Faville del maglio e accennata nel Poema paradisiaco, sono presenti nel romanzo Trionfo della morte.

Ebbe tre sorelle, cui fu molto legato per tutta la vita, e un fratello minore:

Anna (Pescara, 27 luglio 1859 – Pescara, 9 agosto 1914);
Elvira (Pescara, 3 novembre 1861 – Pescara, 1942);
Ernestina (Pescara, 10 luglio 1865 – Pescara, 1938);
Antonio (Pescara, 1867 – New York, 1945), direttore d’orchestra, si trasferì negli Stati Uniti, dove perse tutto nella crisi economica del 1929; D’Annunzio lo aiutò finanziariamente con cospicui prestiti, ma le continue richieste di denaro spinsero Gabriele a rompere i rapporti e a rifiutare di incontrarlo al Vittoriale.
Il giovane D’Annunzio non tardò a manifestare un carattere ambizioso e privo di complessi e inibizioni, portato al confronto competitivo con la realtà. Ne è testimonianza la lettera che, ancora sedicenne, scrisse nel 1879 a Giosuè Carducci, il poeta più stimato nell’Italia umbertina,[14] mentre frequenta il liceo al prestigioso istituto Convitto Cicognini di Prato. Nel 1879 il padre finanziò la pubblicazione della prima opera del giovane studente, Primo vere, una raccolta di poesie che ebbe presto successo. Accompagnato da un’entusiastica recensione critica sulla rivista romana Il Fanfulla della domenica, il libro venne pubblicizzato dallo stesso D’Annunzio con un espediente: fece diffondere la falsa notizia della propria morte per una caduta da cavallo. La notizia ebbe l’effetto di richiamare l’attenzione del pubblico romano sul romantico studente abruzzese, facendone un personaggio molto discusso. Lo stesso D’Annunzio poi smentì la falsa notizia. Dopo aver concluso gli studi liceali accompagnato da una notorietà in continua ascesa, giunse a Roma e si iscrisse alla Facoltà di Lettere, dove non terminò mai gli studi.

Registrazione dell’atto di nascita di Gabriele D’Annunzio avvenuta a Pescara il 13 marzo 1863

Indice del registro dei nati del comune di Pescara del 1863

Il periodo romano (1881-1891)
«Roma, d’innanzi, si profondava in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere fatale.»

(Gabriele D’Annunzio, Il piacere, 1889)

Gabriele D’Annunzio
Gli anni 1881-1891 furono decisivi per la formazione di D’Annunzio, e nel rapporto con il particolare ambiente culturale e mondano di Roma da poco divenuta capitale del Regno, cominciò a forgiarsi il suo stile raffinato e comunicativo, la sua visione del mondo e il nucleo centrale della sua poetica. La buona accoglienza che trovò in città fu favorita dalla presenza in essa di un folto gruppo di scrittori, artisti, musicisti, giornalisti di origine abruzzese, parte dei quali conosciuti dal poeta a Francavilla al Mare, in un convento di proprietà del corregionale e amico Francesco Paolo Michetti (fra essi Scarfoglio, Tosti, Masciantonio e Barbella) che fece parlare in seguito di una “Roma bizantina”, dal nome della rivista su cui scrivevano, Cronaca bizantina.

La cultura provinciale e vitalistica di cui il gruppo si faceva portatore appariva al pubblico romano, chiuso in un ambiente ristretto e soffocante — ancora molto lontano dall’effervescenza intellettuale che animava le altre capitali europee — una novità “barbarica”, eccitante e trasgressiva; D’Annunzio seppe condensare perfettamente, con uno stile giornalistico esuberante, raffinato e virtuosistico, gli stimoli che questa opposizione “centro-periferia”, “natura-cultura” offrivano alle attese di lettori desiderosi di novità.

Atto di matrimonio di Gabriele D’Annunzio e Maria Hardouin, avvenuto a Roma il 28 luglio 1883
D’Annunzio si era dovuto adattare al lavoro giornalistico soprattutto per esigenze economiche, ma attratto alla frequentazione della Roma “bene” dal suo gusto per l’esibizione della bellezza e del lusso, nel 1883 sposò, con un matrimonio “di riparazione” (lei era già incinta del figlio Mario), nella cappella di Palazzo Altemps a Roma, Maria Hardouin duchessa di Gallese, da cui ebbe tre figli (Mario, deputato al parlamento, Gabriele Maria, attore, e Ugo Veniero). Il matrimonio finì in una separazione legale dopo pochi anni (anche se i due rimasero in buoni rapporti), per le numerose relazioni extraconiugali di D’Annunzio. Tuttavia, le esperienze per lui decisive furono quelle trasfigurate negli eleganti e ricercati resoconti giornalistici. In questo rito di iniziazione letteraria egli mise rapidamente a fuoco i propri riferimenti culturali, nei quali si immedesimò fino a trasfondervi tutte le sue energie creative ed emotive. Ma la donna venne presto messa in disparte dallo scrittore, che dall’aprile del 1887 guardò con grande passione alla nuova amante Barbara Leoni, destinata a restare il suo più grande amore, anche al di là della loro storia durata cinque anni.

In quei primi anni giovanili utilizzava lo pseudonimo di “Duca Minimo” per gli articoli che scriveva per La Tribuna, giornale fondato dagli esponenti della Sinistra storica, Alfredo Baccarini e Giuseppe Zanardelli.

Il grande successo letterario arrivò con la pubblicazione del suo primo romanzo, Il piacere a Milano presso l’editore Treves, nel 1889. Tale romanzo, incentrato sulla figura dell’esteta decadente, inaugura una nuova prosa introspettiva e psicologica che rompe con i canoni estetici del naturalismo e del positivismo allora imperanti. Accanto a lettori ed estimatori più attenti e colti, venne presto a crearsi attorno alla figura di D’Annunzio un vasto pubblico condizionato non tanto dai contenuti, quanto dalle forme e dai risvolti divistici delle sue opere e della sua persona, un vero e proprio star system ante litteram, che lo stesso scrittore contribuì a costruire deliberatamente. Egli inventò uno stile immaginoso e appariscente di vita da “grande divo”, con cui nutrì il bisogno di sogni, di misteri, di “vivere un’altra vita”, di oggetti e comportamenti-culto che stava connotando in Italia la nuova cultura di massa.

D’Annunzio nel 1890
Il periodo napoletano (1891-1893)

Busto di Gabriele D’Annunzio, realizzato da Paolo Troubetzkoy nel 1892. Vittoriale degli italiani, Gardone Riviera. Foto di Paolo Monti, 1969.
Tra il 1891 e il 1893 D’Annunzio visse a Napoli, dove compose Giovanni Episcopo e L’innocente, seguiti da Il trionfo della morte (scritto in Abruzzo, tra Francavilla al Mare e San Vito Chietino) e dalle liriche del Poema paradisiaco. Sempre di questo periodo è il suo primo approccio agli scritti di Friedrich Nietzsche. Le suggestioni nietzschiane, liberamente filtrate dalla sensibilità del Vate si ritroveranno anche ne Le vergini delle rocce (1895), poema in prosa dove l’arte «…si presenta come strumento di una diversa aristocrazia, elemento costitutivo del vivere inimitabile, suprema affermazione dell’individuo e criterio fondamentale di ogni atto». Nel 1892, a seguito di una gara con Ferdinando Russo sulla capacità del poeta di comporre liriche in napoletano, D’Annunzio compone il testo de ‘A vucchella, romanza che verrà pubblicata nel 1907 musicata da Francesco Paolo Tosti. La canzone, eseguita da celebri tenori come Enrico Caruso e, in seguito, Luciano Pavarotti verrà incisa anche da grandi interpreti della canzone napoletana come Roberto Murolo che ne faranno un classico.

Il periodo fiorentino (1894-1904)
Sempre nel 1892 cominciò una relazione epistolare con la celebre attrice Eleonora Duse, con la quale ebbe inizio la stagione centrale della sua vita. Si conobbero personalmente nel 1894 e subito scattò l’amore. Per vivere accanto alla sua nuova compagna, D’Annunzio si trasferì a Firenze, nella zona di Settignano, dove affittò la villa La Capponcina – dal nome della famiglia Capponi che ne era stata la proprietaria – (vicinissima alla villa La Porziuncola dell’attrice), trasformandola in un monumento del gusto estetico decadente, definita da lui “la vita del signore rinascimentale”.

Frequentò anche il Chianti e conobbe una nobile di San Casciano in Val di Pesa, passò un breve periodo presso il Fedino, una nota villa del luogo. Sono in questi anni che si situa gran parte della drammaturgia dannunziana, piuttosto innovativa rispetto ai canoni del dramma borghese o del teatro, dominanti in Italia, e che non di rado ha come punto di riferimento la figura attoriale della Duse, nonché le sue migliori opere poetiche, la gran parte delle Laudi, e, tra queste, il vertice e capolavoro della poesia dannunziana, l’Alcyone. La relazione dell’artista con Eleonora Duse è stata celebrata a Firenze in un modo molto originale. Alla nascita del quartiere fiorentino di Coverciano (sorto proprio ai piedi della villa dannunziana di Settignano), due importanti arterie stradali della zona vennero inaugurate in memoria dei famosi amanti, prevedendo inoltre un incrocio tra queste vie.

Tra il 1893 e il 1897 D’Annunzio condusse un’esistenza movimentata, che lo portò dapprima nella sua terra d’origine e poi in Grecia, che visitò nel corso di un lungo viaggio.

Deputato al parlamento
Nel 1897 volle provare l’esperienza politica, vivendo anch’essa, come tutto il resto, in un modo bizzarro e clamoroso: eletto deputato dell’estrema destra, nel 1900 passò nelle file dell’estrema sinistra, giustificandosi con la celebre affermazione «vado verso la vita», per protesta contro Luigi Pelloux e le “leggi liberticide”; espresse anche vivaci proteste per la sanguinosa repressione dei moti di Milano da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris. Dal 1900 al 1906 fu molto vicino al Partito Socialista Italiano.

Il rapporto con la massoneria
Il 3 marzo 1901 inaugurò invece con Ettore Ferrari, Gran Maestro della massoneria del Grande Oriente d’Italia, l’Università Popolare di Milano, nella sede di via Ugo Foscolo, dove pronunciò il discorso inaugurale e dove, successivamente, svolse un’attività straordinaria di docenze e lezioni culturali. L’amicizia con Ferrari aveva avvicinato il Vate alla “libera muratoria”: D’Annunzio era infatti massone e 33º grado della Gran Loggia d’Italia degli Alam detta “di Piazza del Gesù”, fuoriuscita nel 1908 dal GOI[21]. Più tardi fu iniziato al martinismo. Molti dei volontari fiumani erano esoteristi o massoni e tra di essi figuravano in particolare Alceste de Ambris[23], Sante Ceccherini[24], Marco Egidio Allegri. La bandiera della Reggenza del Carnaro avrebbe contenuto svariati simboli massonici e gnostici, come l’uroboro e le sette stelle dell’Orsa Maggiore.

Il trasferimento in Francia (1904-1915)

Eleonora Duse
La relazione con Eleonora Duse si incrinò nel 1904, dopo la pubblicazione del romanzo Il fuoco, in cui il poeta aveva descritto impietosamente la loro relazione, e il tradimento con Alessandra di Rudiní. In quell’epoca la vita dispendiosa condotta dal Vate lo portò a sperperare le cospicue somme percepite per le proprie pubblicazioni, che divennero insufficienti a coprire le spese prodottesi. Nel 1910, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff[27], D’Annunzio si trasferì in Francia: già da tempo aveva accumulato una serie di debiti e, per evitare i creditori, aveva preferito allontanarsi dal proprio Paese. L’arredamento della villa fu messo all’asta e D’Annunzio per cinque anni non rientrò in Italia. Risale a questo periodo la relazione con l’americana Romaine Beatrice Brooks.

A Parigi era un personaggio noto, era stato tradotto da Georges Hérelle e il dibattito tra decadentisti e naturalisti aveva a suo tempo suscitato un notevole interesse già con Huysmans. Ciò gli permise di mantenere inalterato il suo dissipato stile di vita fatto di debiti e frequentazioni mondane, tra cui quelle con Filippo Tommaso Marinetti e Claude Debussy. Pur lontano dall’Italia, collaborò al dibattito politico prebellico, pubblicando versi in celebrazione della guerra italo-turca, inclusi poi in Merope, o editoriali per diversi giornali nazionali (in particolare per il Corriere della Sera), che a loro volta gli concedevano altri prestiti.

Nathalie de Goloubeff, compagna di d’Annunzio nell’esilio di Arcachon
Nel 1910 D’Annunzio aderì all’Associazione Nazionalista Italiana fondata da Corradini. Nei suoi contributi inneggiò a una politica di potenza, opponendo la sua idea di Nazione all’«Italietta meschina e pacifista». Nel 1914 Gabriele D’Annunzio rifiutò di diventare Accademico della Crusca, dichiarandosi nemico degli onori letterari e delle Università. Ai bolognesi che gli offrivano una cattedra scrisse infatti: “amo più le aperte spiagge che le chiuse scuole dalle quali vi auguro di liberarvi”. Dopo il periodo parigino si ritirò ad Arcachon, sulla costa atlantica, dove si dedicò all’attività letteraria in collaborazione con musicisti di successo (Mascagni, Debussy), e compose libretti d’opera (Le martyre de Saint Sébastien) e soggetti per film (Cabiria).

Partecipazione alla prima guerra mondiale (1915-1918)
Nel 1915 ritornò in Italia, dove rifiutò la cattedra di letteratura italiana che era stata di Pascoli; condusse immediatamente un’intensa propaganda interventista, inneggiando al mito di Roma e del Risorgimento e richiamandosi alla figura di Giuseppe Garibaldi.

Il discorso celebrativo che D’Annunzio pronunciò a Quarto il 5 maggio 1915 durante l’inaugurazione del monumento ai Mille, in seno alle imponenti manifestazioni che si svolsero a Genova in occasione delle celebrazioni del Primo Maggio, segnò l’inizio di un fitto programma di manifestazioni interventiste, che culminarono con le arringhe tenute a Roma durante tutto il periodo antecedente l’entrata in guerra, durante le cosiddette “radiose giornate di maggio”. Con lo scoppio del conflitto con l’Austria-Ungheria, D’Annunzio, nonostante avesse 52 anni, ottenne di arruolarsi come volontario di guerra nei Lancieri di Novara, partecipando subito ad alcune azioni dimostrative navali e aeree. Per un periodo risiedette a Cervignano del Friuli e Santa Maria la Longa, località vicine al Comando della III Armata, a capo della quale era il suo estimatore Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta.

Uno dei volantini lanciati su Vienna

Allegoria del volo propagandistico fatto sopra Trieste il 22 agosto 1915
La sua attività in guerra fu prevalentemente propagandistica, fondata su continui spostamenti da un corpo all’altro come ufficiale di collegamento e osservatore.

Ottenuto il brevetto di Osservatore d’aereo, nell’agosto 1915 effettuò un volo sopra Trieste insieme al suo comandante e carissimo amico Giuseppe Garrassini Garbarino, lanciando manifesti propagandistici; nel settembre 1915 partecipò a un’incursione aerea su Trento e nei mesi successivi, sul fronte carsico, a un attacco lanciato sul monte San Michele nel quadro delle battaglie dell’Isonzo. Il 16 gennaio del 1916, a seguito di un atterraggio d’emergenza, nell’urto contro la mitragliatrice dell’aereo riportò una lesione all’altezza della tempia e dell’arcata sopracciliare destra. La ferita, non curata per un mese, provocò la perdita dell’occhio che tenne coperto da una benda; anche da questo episodio trasse ispirazione per autodefinirsi e autografarsi come l’Orbo veggente. Dopo l’incidente passò un periodo di convalescenza a Venezia, durante il quale, assistito dalla figlia Renata, compose il Notturno. L’opera, interamente dedicata a ricordi e riflessioni legati all’esperienza di guerra, fu pubblicata nel 1921. Dopo la degenza, contro i consigli dei medici, tornò al fronte: nel settembre 1916 partecipò a un’incursione su Parenzo e, nell’anno successivo, con la III Armata, alla conquista del Veliki e al cruento scontro presso le foci del Timavo nel corso della decima battaglia dell’Isonzo.

Nell’agosto del 1917 compì, con i piloti Maurizio Pagliano e Luigi Gori e il loro Caproni Ca.33, decorato con l’Asso di Picche, tre raid notturni su Pola (3, 5 e 8 agosto). Alla fine del mese effettuò col medesimo equipaggio attacchi a volo radente sulla dorsale dell’Hermada, riportando una ferita al polso e rientrando con il velivolo forato da 134 colpi. A settembre parve realizzarsi la possibilità di effettuare l’agognato raid su Vienna. A tal fine, con Pagliano e Gori compì un volo dimostrativo di 1 000 km in 9 ore di volo, ma all’ultimo istante il consenso al raid venne negato. Alla fine di settembre si trasferì a Gioia del Colle (BA), inquadrato sempre con Pagliano e Gori, oltre al tenente Ivo Oliveti, Casimiro Buttini, Gino Lisa, Mariano D’Ayala Godoy, Andrea Bafile e il corrispondente di guerra del Corriere della Sera Guelfo Civinini, nel Distaccamento A.R., comandato dal maggiore Armando Armani, sui Caproni Ca.33 e al comando della 1ª Squadriglia bis, per compiere una missione sulle installazioni navali del golfo di Cattaro. L’impresa venne portata a termine con successo, sempre con Pagliano e Gori, la notte del 4 ottobre, volando per oltre 500 km sul mare, senza riferimenti, orientandosi con la bussola e le stelle[senza fonte]. Alla fine di ottobre, durante la battaglia di Caporetto, incitò i soldati, pronunciando discorsi appassionati. Nel febbraio del 1918, imbarcato sui MAS 96 della Regia Marina, partecipò al raid navale, denominato la beffa di Buccari, azione dedicata alla memoria dei suoi compagni di volo Pagliano e Gori, caduti il 30 dicembre. Cazzullo riporta un episodio in cui il poeta cercò di impegnare truppe italiane per un’operazione puramente dimostrativa volendo posizionare un enorme tricolore sul castello di Duino, situato oltre il fronte, in direzione di Trieste. Quando gli austriaci, accortisi dell’incursione, aprirono il fuoco uccidendo diversi soldati italiani, D’Annunzio forzò i fanti rimasti ad avanzare comunque, ordinando agli artiglieri di sparare su chi si fosse arreso e additando i superstiti che fuggivano come codardi.

L’11 marzo 1918, con il grado di maggiore, assunse il comando della 1ª Squadriglia navale S.A. del campo volo di San Nicolò del Lido di Venezia[30], primo esperimento di siluranti aeree, chiamata Squadra aerea San Marco, e ne coniò il motto: Sufficit Animus (“È sufficiente [anche solo] il coraggio”). Tale squadriglia era mista, in quanto formata da aeroplani da ricognizione-bombardamento (velivoli SIA 9B – quattro velivoli nel 1º semestre 1918 e sette velivoli nel 2º semestre 1918) e da ricognizione/caccia (10 velivoli Ansaldo S.V.A.).

Nell’agosto del 1918, alla guida della 87ª Squadriglia aeroplani “Serenissima”, equipaggiata con i nuovi velivoli SVA 5, realizzò il suo sogno: il Volo su Vienna. Preso posto su uno SVA modificato, pilotato dal capitano Natale Palli, il 9 agosto raggiunse con una formazione di sette aeroplani la capitale asburgica, compiendo un volo di oltre 1 000 km, quasi tutti sorvolando il territorio in mano al nemico. L’azione, dal carattere esclusivamente psicologico e propagandistico, fu caratterizzata dal lancio di migliaia di manifestini nei cieli di Vienna, con scritte che inneggiavano alla pace e alla fine delle ostilità. L’eco e la risonanza di tale azione furono enormi e perfino il nemico dovette ammetterne il valore. Fino al termine del conflitto, D’Annunzio si prodigò in innumerevoli voli di bombardamento sui territori occupati dall’esercito austriaco, fino alla battaglia finale, ai primi di novembre 1918.

Al termine del conflitto «egli apparteneva di diritto alla generazione degli assi e dei pluridecorati…» e il coraggio dimostrato, unitamente ad alcune celebri imprese di cui era stato protagonista, ne consolidarono ulteriormente la popolarità. Si congedò con il grado di tenente colonnello, inusuale, all’epoca, per un ufficiale di complemento (ebbe tre promozioni per merito di guerra); gli verrà anche concesso nel 1925 il titolo onorario di generale di brigata aerea. Fu insignito di una medaglia d’oro al valor militare, cinque d’argento e una di bronzo. Nell’immediato dopoguerra D’Annunzio si fece portatore di un vasto malcontento, insistendo sul mito della “vittoria mutilata” e chiedendo, in sintonia con il movimento dei combattenti, il rinnovamento della classe dirigente in Italia. Lo stesso clima di malcontento portò all’ascesa di Benito Mussolini, che di qui al 1922 avrebbe condotto il fascismo a prendere il potere in Italia.

Durante il conflitto D’Annunzio conobbe il poeta giapponese Harukichi Shimoi, arruolatosi negli Arditi dell’esercito italiano. Dall’incontro dei due poeti-soldati nacque l’idea, promossa a partire dal marzo 1919, del raid aereo Roma-Tokyo, ovviamente pacifico, a cui il Vate voleva inizialmente partecipare, e che fu portato a termine dall’aviatore Arturo Ferrarin.

L’impresa di Fiume (1919-1921)

Enrico Marchiani, Ritratto di Gabriele d’Annunzio in uniforme da Ardito. Dipinto esposto al Museo D’Annunzio Eroe del Vittoriale
Gabriele d’Annunzio
Photo of prince d’ annunzio.jpg
Fotografia del principe Gabriele D’Annunzio
Principe di Montenevoso
Stemma
In carica 15 marzo 1924 –
1º marzo 1938
Successore Mario d’Annunzio
Trattamento Don
Nascita Pescara, 12 marzo 1863
Morte Gardone Riviera, 1º marzo 1938
Sepoltura Vittoriale degli italiani
Luogo di sepoltura Gardone Riviera
Dinastia d’Annunzio
Padre Francesco Paolo Rapagnetta-D’Annunzio
Madre Luisa de Benedictis
Consorte Maria Hardouin
Figli Mario D’Annunzio, Gabriellino D’Annunzio, Ugo Veniero D’Annunzio
Religione Agnosticismo/Misticismo neopagano (forse si riavvicinò al cattolicesimo nei suoi ultimi anni)
Motto Immotus nec Iners
Quis contra nos?
Firma Firmadannunzio.png
«Trasformare il cardo bolscevico in rosa d’Italia, Rosa d’Amore.»

(Gabriele D’Annunzio)
Nel settembre 1919 D’Annunzio, insieme con un gruppo paramilitare, guidò una spedizione di “legionari”, partiti da Ronchi di Monfalcone (ribattezzata, nel 1925, Ronchi dei Legionari in ricordo della storica impresa), per l’occupazione della città di Fiume, che le potenze alleate vincitrici non avevano assegnato all’Italia. Con questo gesto D’Annunzio raggiunse l’apice del processo di edificazione del proprio mito personale e politico.

A Fiume, occupata dalle truppe alleate, già nell’ottobre 1918 si era costituito un Consiglio nazionale che propugnava l’annessione all’Italia, di cui fu nominato presidente Antonio Grossich. D’Annunzio con una colonna di volontari (tra i quali vi era anche Silvio Montanarella, marito della figlia Renata) occupò Fiume e vi instaurò il “Comando dell’Esercito italiano in Fiume d’Italia”. Il 5 ottobre 1920 aderì al Fascio di combattimento di Fiume.

D’Annunzio, che era anche comandante delle Forze armate fiumane, e il suo governo vararono tra l’altro la Carta del Carnaro, una costituzione provvisoria, scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris e modificata in parte da D’Annunzio stesso, che prevedeva, assieme alle varie leggi applicative e regolamenti varati, numerosi diritti per i lavoratori, le pensioni di invalidità, l’habeas corpus, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione, di religione e di orientamento sessuale, la depenalizzazione dell’omosessualità, del nudismo e dell’uso di droga, la funzione sociale della proprietà privata, il corporativismo, le autonomie locali e il risarcimento degli errori giudiziari, il tutto molto tempo prima di altre carte costituzionali dell’epoca.

Alle nove corporazioni originarie ne aggiunse una decima, costituita dai cosiddetti “uomini novissimi”. Gli articoli XLIII e XLIV delineano la figura di un “Comandante” (lo stesso D’Annunzio), eletto con voto palese, una sorta di dittatore romano, attivo per il tempo di guerra, che detiene “la potestà suprema senza appellazione” e “assomma tutti i poteri politici e militari, legislativi ed esecutivi. I partecipi del Potere esecutivo assumono presso di lui officio di segretarii e commissarii.”

Alcuni sostengono che D’Annunzio avesse usato mezzi repressivi per il governo di Fiume, i quali precorsero quelli poi usati dai fascisti. È diffusa l’opinione che l’uso dell’olio di ricino come strumento di tortura e punizione dei dissidenti sia stato introdotto proprio dai legionari di D’Annunzio, poi fatto proprio e reso famoso dallo squadrismo fascista.. Altri sostengono invece che l’esperienza non ebbe connotati solo nazionalistici, ma anche liberali e libertari piuttosto netti, e che il poeta non avesse intenzione di costituire un governo personale, ma solo un governo d’emergenza con possibilità di sperimentazione di diverse idee, aggregate in un programma politico unico grazie al suo carisma. D’Annunzio per un certo periodo guardò con curiosità ai bolscevichi, tanto che il 27 e il 28 maggio 1922 ospitò al Vittoriale Georgij Vasil’jevič Čičerin, commissario sovietico agli affari esteri arrivato in Italia per la conferenza di Genova. Tuttavia nel 1926 esprimerà invece critiche contro il governo sovietico.

Il 12 novembre 1920 i governi italiano e jugoslavo stipularono il trattato di Rapallo, che trasformava Fiume in una città libera. D’Annunzio non accettò il trattato e rifiutò ogni mediazione, spingendo il governo a intervenire con la forza. Tra il 24 e il 27 dicembre, le truppe governative attaccarono i legionari. La breve guerra, definita Natale di sangue, causò numerosi morti e il bombardamento della città. Ai tempi di Fiume D’Annunzio soprannominò sprezzantemente Cagoja l’ex primo ministro Francesco Saverio Nitti. Lo Stato libero di Fiume non ebbe vita facile. Anche dopo la partenza di d’Annunzio, fu sconvolto dal conflitto tra autonomisti e annessionisti, fino a quando nel 1924 la città fu annessa dall’Italia fascista.

L’esilio a Gardone Riviera e morte (1921-1938)

La villa di D’Annunzio, nel complesso monumentale del “Vittoriale degli Italiani”

Deluso dall’epilogo dell’esperienza di Fiume, nel febbraio 1921 si ritirò in un’esistenza solitaria nella villa di Cargnacco (comune di Gardone Riviera), che pochi mesi più tardi acquistò. Ribattezzata il Vittoriale degli Italiani, fu ampliata e successivamente aperta al pubblico. Qui lavorò e visse fino alla morte, curando con gusto teatrale un mausoleo di ricordi e di simboli mitologici di cui la sua stessa persona costituiva il momento di attrazione centrale.

D’Annunzio si impegnò inoltre per la crescita e il miglioramento della zona: la costruzione della strada litoranea Gargnano-Riva del Garda (1929-1931) fu fortemente voluta da lui, che se ne interessò personalmente, facendo valere il suo prestigio personale con le autorità. La strada, progettata e realizzata dall’ing. Riccardo Cozzaglio, segnò il termine del secolare isolamento di alcuni paesi del lago di Garda e fu poi classificata di interesse nazionale con il nome di Strada statale 45 bis Gardesana Occidentale. Lo stesso D’Annunzio, presente all’inaugurazione della strada, la battezzò con il nome di Meandro, per via della sua tortuosità e dell’alternarsi delle buie gallerie e del lago azzurro.

Il Vate e il fascismo
Il rapporto con il fascismo è oggetto di un dibattito complesso tra gli storici. Il fascismo celebrò sempre D’Annunzio come un suo precursore politico e letterario. Lo scrittore, dopo un’adesione iniziale ai Fasci italiani di combattimento, non prese mai la tessera del Partito Nazionale Fascista, probabilmente per mantenere la sua autonomia.

Nel 1919 Mussolini avviò tramite il suo quotidiano Il Popolo d’Italia una sottoscrizione pubblica per finanziare l’Impresa di Fiume, con la quale raccolse quasi tre milioni di lire. Una prima tranche di denaro, ammontante a 857 842 lire, fu consegnata a D’Annunzio ai primi di ottobre, mentre altro denaro gli giunse in seguito. Una parte cospicua del denaro raccolto, però, non fu consegnata a D’Annunzio e Mussolini fu accusato da due redattori di averla dirottata per finanziare lo squadrismo e il proprio partito in vista delle vicine elezioni politiche italiane del 1919. Per controbattere alle accuse, D’Annunzio inviò una lettera a Mussolini in cui ne attestò pubblicamente l’autorizzazione. Il poeta certificò che parte della somma raccolta era stata utilizzata per finanziare lo squadrismo a Milano.

«Mio caro Benito Mussolini, chi conduce un’impresa di fede e di ardimento, tra uomini incerti o impuri, deve sempre attendersi d’essere rinnegato e tradito “prima che il gallo canti per la seconda volta”. E non deve adontarsene né accorarsene. Perché uno spirito sia veramente eroico, bisogna che superi la rinnegazione e il tradimento. Senza dubbio voi siete per superare l’una e l’altro. Da parte mia, dichiaro anche una volta che — avendo spedito a Milano una compagnia di miei legionari bene scelti per rinforzo alla vostra e nostra lotta civica — io vi pregai di prelevare dalla somma delle generosissime offerte il soldo fiumano per quei combattenti. Contro ai denigratori e ai traditori fate vostro il motto dei miei “autoblindo” di Ronchi, che sanno la via diritta e la meta prefissa. Fiume d’Italia, 15 febbraio 1920 Gabriele D’Annunzio.»

D’Annunzio, assieme a Filippo Tommaso Marinetti, fu uno dei primi firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, pubblicato il 21 aprile 1925. Il deputato socialista Tito Zaniboni, più tardi noto per aver organizzato un attentato contro Mussolini il 4 novembre 1925, comunicò al giornale Il Mondo la notizia che D’Annunzio, in una lettera indirizzata a un legionario fiumano, avrebbe scritto in maniera critica sulla questione:
«Sono molto triste di questa fetida ruina»

(Gabriele D’Annunzio secondo Tito Zaniboni)
All’indiscrezione D’Annunzio rispose il 5 novembre su La Provincia di Brescia:

«A tutti i politicastri, amici o nemici, conviene dunque ormai disperare di me. Amo la mia arte rinovellata, amo la mia casa donata. Nulla d’estraneo mi tocca, e d’ogni giudizio altrui mi rido»

(Gabriele D’Annunzio)

Il Vittoriale: è segnata con la X la finestra dalla quale D’Annunzio cadde nel 1922

D’Annunzio nel 1922, in uniforme da ufficiale del Regio Esercito
Nel 1937 fu eletto Presidente dell’Accademia d’Italia, ma non andò mai a presiedere alcuna riunione (la nomina fu quasi imposta da Benito Mussolini, con la contrarietà di D’Annunzio). D’Annunzio fu anche Presidente onorario della SIAE dal 1920 al 1938. Per molti il Duce, temendo la popolarità e la personalità indipendente del poeta, tentò di metterlo risolutamente da parte, ricoprendolo di onori. Mussolini arrivò a finanziarlo con un assegno statale regolare, che gli permise di far fronte ai numerosi debiti; in cambio D’Annunzio evitò di esternare troppo il disprezzo che provava per la trasformazione del fascismo-movimento, che aveva ammirato, in un regime dittatoriale.

Di certo vi era la scomodità del personaggio: già nel 1922, tre mesi prima della Marcia su Roma, quando D’Annunzio cadde dalla finestra della sua villa rischiando la vita (vicenda soprannominata “il volo dell’arcangelo”), qualcuno parlò di un attentato ordito dal primo ministro Francesco Saverio Nitti o addirittura dai fascisti; il funzionario Giuseppe Dosi indagò sulla caduta “accidentale” di D’Annunzio, che quasi ne provocò la morte, e scrisse:
«Sicuramente qualcuno che ha visto nell’evento la volontà di non far presiedere a D’Annunzio l’incontro con Nitti e Mussolini e quindi cerca la traccia di un complotto. La principale indiziata è Luisa Baccara (compagna di D’Annunzio all’epoca, ndr) o sua sorella Jolanda ovvero tutte e due insieme. Nasce l’ipotesi che Luisa Baccara (che delle due sorelle ha maggiore personalità) sia la carceriera del Comandante; che sia una spia di Nitti o una fascista celata, ma anche che abbia lo scopo finale di uccidere D’Annunzio per toglierlo di mezzo, posto che sia diventato ingombrante per tutti. Certo gli eventi portano molta acqua al mulino di queste ipotesi.»

Renzo De Felice afferma che D’Annunzio fu posto poi sotto il controllo di agenti fascisti, visti anche i buoni rapporti del Vate con esponenti del mondo libertario, socialista e rivoluzionario, tra cui l’ex legionario fiumano e poi socialista Alceste de Ambris (che avvicinò il nazionalista D’Annunzio al sindacalismo rivoluzionario) e il politico Aldo Finzi, fascista di sinistra (poi partigiano antifascista) che prese parte con il poeta al volo su Vienna. Gli antifascisti Giovanni Bassanesi e Lauro De Bosis (D’Annunzio fu un frequentatore del circolo letterario del padre) vollero invece emulare proprio il volo su Vienna nelle loro imprese propagandistiche su Milano e Roma. Antonio Gramsci, che già nel 1920 aveva elogiato l’impresa fiumana dopo che anche Lenin aveva definito D’Annunzio “l’unico vero rivoluzionario in Italia”, aveva progettato nel 1922 un incontro col poeta, poi non avvenuto, in vista di un avvicinamento del PCI appena nato con gli Arditi del Popolo (formazioni di difesa proletaria nata da una scissione del movimento di reduci degli Arditi d’Italia), in funzione anti-squadrista e contro la posizione isolazionista di Amadeo Bordiga, accusato da Mosca di essere un “frazionista”.

Nel 1937-38 D’Annunzio si oppose all’avvicinamento dell’Italia fascista al regime nazista, bollando Adolf Hitler, già nel giugno 1934, come “pagliaccio feroce”, “marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce di colla”, “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”, “Attila imbianchino”. A partire da questo periodo, D’Annunzio cominciò a propagandare la necessità di completare l’irredentismo con una nuova “impresa fiumana” sulla Dalmazia. Mussolini e Starace lo fecero mettere segretamente sotto stretta sorveglianza, non fidandosi di lui e delle sue iniziative

Nel 1937 D’Annunzio si recò alla stazione di Verona per incontrarsi con Mussolini
La sua influenza sulla cultura italiana ed europea nei primi decenni del Novecento fu indiscutibile. Sempre attento ai movimenti dei giovani, fu tra i massimi ispiratori del Fondaco di baldanza, della Federazione Italiana Universitaria e di La Fionda, associazione goliardica e casa editrice.

La sua salute cominciava ormai a declinare; D’Annunzio riceveva sempre le sue numerosi amanti, ma nonostante il carisma intatto e il fascino che esercitava il suo mito, egli le aspettava in camicia da notte o nella penombra, per nascondere il fisico invecchiato. D’Annunzio, fotofobico in seguito all’incidente all’occhio del 1916, stava comunque spesso nella penombra, coprendo con tende (visibili tuttora al Vittoriale) le finestre esposte alla luce solare diretta. Faceva spesso uso di stimolanti (come la cocaina), medicinali vari e antidolorifici, visibili tuttora negli armadietti del Vittoriale.

Il 1º marzo 1938, alle ore 20:05, Gabriele D’Annunzio morì nella sua villa per un’emorragia cerebrale, mentre era al suo tavolo da lavoro; sullo scrittoio era aperto il Lunario Barbanera, con una frase da lui sottolineata di rosso, che annunciava la morte di una personalità. Il ricercatore Attilio Mazza ha sostenuto che il poeta possa essere morto per overdose di farmaci, accidentale o volontaria, dopo un periodo di depressione; all’amica Ines Pradella aveva scritto pochi mesi prima: “Fiammetta, oggi patisco uno di quegli accessi di malinconia mortali, che mi fanno temere di me; poiché è predestinato che io mi uccida. Se puoi, vieni a sorvegliarmi”. Nel Libro segreto (1935), D’Annunzio fa intendere anche la caduta accidentale del 1922 come un tentativo di suicidio. Il certificato medico di morte, scritto dal dottor Alberto Cesari, primario dell’ospedale di Salò, e dal dottor Antonio Duse, medico curante del poeta, ufficializzò comunque la morte per cause naturali.

Alla notizia della morte del poeta, Mussolini, secondo quanto riportato da Galeazzo Ciano nei suoi Diari, avrebbe detto di avvertire un senso di “vuoto” e che il Vate “aveva rappresentato molto nella sua vita”; parole che appaiono almeno in parte insincere, visto l’antagonismo tra i due, il fatto che il Duce lo facesse controllare e in privato lo definisse “il vecchio bardo decrepito”.

Ai funerali di Stato, voluti in suo onore dal regime fascista, la partecipazione popolare fu imponente. Il feretro, avvolto dalla bandiera del Timavo era seguito da «…la folla innumerevole degli ex legionari, degli ammiratori, dei devoti alla sua gloria e alla sua fama…». È sepolto nel mausoleo del Vittoriale.

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